Author: alessandra.

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Qualche sera fa siamo andati a vedere la Mandragola di Niccolò Machiavelli al Teatro Carcano: una commedia/satira sulla corruzione, l’ignoranza e la brama di possesso, travestita da favola tra pozioni, amori e (apparente) lieto fine.

Commedia considerata un capolavoro del Cinquecento, è stata portata in scena con la regia e la scenografia di Jurij Ferrini (Amministratore e Direttore Arstistico del progetto U.R.T.).

In una Firenze del Cinquecento il giovane innamorato e furbo Callimaco, con l’aiuto dei due fidi aiutanti e amici Siro e Ligurio, riesce a ottenere l’amore dell’amata Lucrezia ingannando il poco astuto e anziano marito della donna, messer Nicia, non senza il supporto di un corrotto prete.

Tra pozioni, battute e amore, prende vita sul palco una divertente commedia dagli effetti scenici piacevoli e ricercati.

L’antico si fonde col moderno: scenografia che riporta in luoghi e arredamenti dal sapore vintage unita a luci e musiche che vintage non sono; parlata antica, ma veloce come quella più schietta e diretta dei nostri giorni; gag dall’ambientazione antica, ma dal contenuto estremamente attuale.

Dietro alle vicende dei protagonisti, che strappano più di una risata allo spettatore, nella commedia si nasconde in realtà l’allegoria di un’Italia che scivola lontana da morale e valori e si lascia abbindolare da basse e meschine brame di potere.

Il rimando all’Italia ci viene comunicato attraverso la scenografia: sui palazzi della Piazza di Firenze appare disegnata l’Italia, affiancata però dal disegno di banconote, attirando fin da subito l’attenzione del pubblico sul tema della corruzione e del potere del denaro.

La commedia scorre piacevole a ritmo allegro con originali momenti musicali. La simbologia che corre tra le righe della commedia è chiara e con l’ultima scena spingerà a una riflessione anche lo spettatore più pigro: davvero è questa la felicità? L’apparenza che tutti abbiano ottenuto quello che desideravano? Anche se tutto è frutto di un inganno?

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Non lo conoscevo il Teatro della Contraddizione (http://www.teatrodellacontraddizione.it/) e ora che ci sono stata per una sola serata credo non lo abbandonerò più.

Il 22 dicembre hanno messo in scena uno spettacolo dal titolo “Racconti di Natale – Storie, canzoni e poesie sporche di neve pulita”. Difficile rendere le emozioni che ho provato quella sera, ma ci proverò.

Il Teatro della contraddizione non è un teatro come quelli che siamo soliti vedere, è diverso, originale, scardina alcune immagini che siamo abituati a legare alla parola “teatro” e la arricchisce di calore e rapporto umano. La hall del teatro è un posto creato per far sì che le persone, in attesa dello spettacolo, possano parlare e conoscersi. Non è uno spazio formale, trasuda passione, quella di chi quel posto l’ha creato e voluto. La sala della rappresentazione è diversa dai soliti teatri, anche se mantiene tutta quella magia che si crea davanti a un palcoscenico.

Lo spettacolo ha inizio e da lì, per un’ora e mezza, sensi e sentimenti sono impegnati a lasciarsi trasportare dalla voce profonda ed espressiva di Vincenzo Costantino, detto Cinaski, poeta, scrittore e cantautore che da anni porta per l’Italia la sua poesia e le sue letture musicate. Lui è seduto al centro della scena, a sinistra Mell Morcone accompagna le parole di Cinaski con la melodia del pianoforte, a destra Raffaele Kohler le accompagna col suono nostalgico e graffiante della sua tromba. Luci calde li illuminano, mentre Cinaski ci porta in un viaggio bellissimo, quasi come assistessimo a un film, tra le parole di tre brani e di tre canzoni.

pic for blog aleA fine spettacolo il Direttore Artistico del teatro e il suo team invitano gli spettatori a fermarsi per degustare un buon bicchiere di vino e, perché no, a continuare la conoscenza iniziata nella hall del teatro e a scambiare impressioni e racconti con gli artisti. Ironia, malinconia, amara tristezza, piacevole realtà, poesia, dolcezza, ricordi che si risvegliano, luci, colori, calore, il piacere di confrontarsi, di conoscere e conoscersi… tutto questo e molto di più è quello che l’arte di quella sera del 22 dicembre ha suscitato.

 

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Domenica pomeriggio: il teatro Franco Parenti ci accoglie in un’atmosfera invitante, a tratti misteriosa e sicuramente un po’ magica come tutti i teatri.

Attendiamo che aprano la sala per vedere il monologo Kostja Territorio straniero interno, regia di Lara Franceschetti (attrice, autrice di testi teatrali e regista, ha lavorato con numerose compagnie teatrali ed è specializzata in danza e teatro-danza), interpretato da Riccardo Raffaele Bozano.

Ecco che una maschera ci annuncia che possiamo entrare nella sala, ma ci raccomanda di entrare nel pieno rispetto degli artisti che sono già in scena. Entriamo e ci sediamo.

Non c’è un sipario, non c’è un palco. La sala è piccola, ci sono delle gradinate, disposte come un piccolo anfiteatro, con cuscini rossi per noi spettatori. Davanti a noi tutto è pronto. Luci soffuse, una scenografia molto bella di piante e foglie secche. Sulla sinistra di questo palco immaginario, rannicchiato su un ceppo di legno c’è lui, Kostja. Al lato opposto, a destra, una presenza gentile di ragazza che, con il suo violino, scandirà con eleganza e discrezione i momenti salienti del monologo.

La rappresentazione dura circa un’ora. Un monologo intenso. Kostja ci porta in uno spazio/tempo parallelo attraverso le sue riflessioni, chiare, urlate, forti, ma anche introspettive, sussurrate, a volte ripetute come nenie dolorose.

E’ un viaggio dentro di sé, alla scoperta di se stesso, con domande e riflessioni, che tocca amore, arte, relazioni… ascoltare ed essere ascoltati… Già, un monologo fuori dallo spazio e dal tempo ma così attuale: la necessità di ascoltare ed essere ascoltati. Mai fu argomento più attuale. In un mondo dove si urla nessuno ascolta veramente e nessuno è veramente ascoltato.

ale post 3Forse Kostja non è così lontano da tutti noi nelle sue deliranti riflessioni, forse un po’ di quel caos, di quelle speranze, di quelle passioni, di quei desideri e di quelle domande è anche dentro di noi…

Interpretazione, scelte di regia, scenografia e ambientazione hanno fatto sì che questo monologo lasciasse un segno ben definito nel pubblico.

 

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“Due donne che ballano” è una storia di forte sofferenza e di complicità, raccontata attraverso una sfaccettatura di modi d’essere di cui solo le donne sono capaci.

L’autore di “Due donne che ballano” è Josep Maria Benet I Jornet, considerato uno dei massimi autori del teatro spagnolo contemporaneo e il padre del teatro catalano.

La rappresentazione, prima produzione del Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano nato a gennaio 2015, è stata diretta dalla regista Veronica Cruciani. Le due protagoniste, Maria Paiato e Annamaria Scommegna, importanti rappresentanti della scena teatrale italiana, rappresentano un’anziana signora e la sua badante.

La scena si apre sull’interno di un appartamento, umile ed essenziale, l’unica nota di colore la danno una vecchia radio e una libreria colma di libri, che durante lo spettacolo scopriremo essere fumetti. Le due donne ci portano attraverso uno spaccato di vita che è trasversale a generazioni e luoghi. I tratti del carattere, di entrambe, duri e sofferti, sono il risultato di una vita che le ha messe duramente alla prova, ma invece di lottare supportate da quell’aiuto che dovrebbe arrivare dalle persone vicine, da quelli che dovrebbero essere gli affetti, sono state lasciate sole. Figure assenti tra mariti e figli, violenze fisiche e dell’anima, portano le due donne a temprare i propri caratteri.

Le tematiche forti che veniamo a scoprire poco alla volta portano lo spettatore a un moto di sentimenti vero, consapevole che il racconto di solitudine, ma contemporaneamente di profonda solidarietà femminile, è quanto mai più che reale. Due donne fragili, ma energiche che, sotto la scorza dura che si sono dovute costruire, ancora hanno la forza di ironizzare anche nei momenti più tragici. Due donne che ballano perché la musica e il ballo ricorrono più volte nella pièce, ma solo nel finale il ballo assume tutto il suo significato: abituate a ballare da sole in una vita che non è stata gentile, finalmente hanno trovato una compagna di ballo a cui appoggiarsi e con cui lasciarsi andare e cullare fra le onde del destino.

Un’ora e quaranta di rappresentazione che vola, le due attrici sempre in scena, una recitazione impegnativa fisicamente e psicologicamente, dai toni forti, sofferenti, singhiozzanti e disperati, ma anche piacevolmente ironici.

Un’ora e quaranta per riflettere accompagnati dalla forza e dalla sensibilità di due grandi donne.